Dopo la ritirata di Russia, nel maggio 1943 Mussolini ordinò alle truppe stanziate in Tunisia, guidate da Giovani Messe, di arrendersi: l’Italia non era più in grado di sostenere il conflitto al fianco della Germania nazista. Il 10 luglio gli Alleati sbarcarono in Sicilia determinando per noi la sconfitta: non restava che chiedere l’armistizio. Mussolini convocò il Gran Consiglio del fascismo dove, su proposta di Dino Grandi, fu votata la sfiducia. Mussolini, convinto di poter gestire il gioco e pensando di avere ancora una volta l’appoggio del re, si recò al Quirinale dove invece Vittorio Emanuele III lo fece arrestare. Il re nominò al suo posto Pietro Badoglio, un generale fascista. Mussolini verrà rinchiuso in un albergo a campo Imperatore, sul Gran Sasso, vicino L’Aquila da cui verrà liberato dai tedeschi il 12 settembre 1943.
Nel 1941 l’Italia partecipò all’operazione “Barbarossa”, nome in codice della guerra contro l’Urss voluta dalla Germania, con un contingente iniziale di 62.000 militari, il Corpo di spedizione italiano in Russia. L’anno successivo, su richiesta di Hitler, l’Italia dovette aumentare l’impegno sul fronte orientale: a luglio del 1942 partiva l’Armir (Armata italiana in Russia) con una forza totale di 229.000 uomini. Dopo la prima battaglia del Don, che si svolse nell’estate del 1942, le truppe dell’Asse furono sbaragliate dall’Armata Rossa sul fronte del Don e di Stalingrado (oggi Volgograd) con un’offensiva sferrata a novembre del ‘42. Per le truppe italiane tra dicembre 1942 e gennaio 1943 iniziava la terribile ritirata verso occidente, in pieno inverno, senza mezzi e vestiario adeguati. Oltre 70 mila militari dell’Armir furono catturati dai sovietici. A migliaia morirono nel freddo per fame, ferite e congelamenti.
Prof. Maria Teresa Giusti, docente di Storia Contemporanea e Storia Sociale del Dipartimento di Economia Aziendale.
Il valore della letteratura e la formazione dei giovani
Il principio di competizione umanitaria che il pedagogista Tsunesaburo Makiguchi (1871-1944) espone nel suo testo La geografia umana, propone di accogliere la competitività e di affrontarla rimanendo fedeli ai valori umani.
In un’arena competitiva di dimensione globale, i giovani sono chiamati ad affrontare sfide economiche e professionali sempre più complesse, data la quantità e la varietà delle culture e dei contesti sociali che partecipano alla creazione del futuro.
Nell’attuale variabilità ambientale, i protagonisti del domani devono impossessarsi degli strumenti necessari per orientarsi nel proprio ambiente lavorativo rispondendo con risolutezza alle nuove istanze collettive. Nell’epoca della cultura convergente, i gradi di separazione umana e culturale si assottigliano e il sistema delle relazioni assume i contorni di una nuova geografia umana più ampia e più articolata. In questo panorama multiculturale, i giovani possono scegliere di prepararsi attingendo al ricco giacimento della letteratura inglese quale fonte di ispirazione e di conoscenza di una cultura diversa che, nella sua dimensione europea, offre strumenti interpretativi e dialogici più ampi. La professoressa Enrichetta Soccio, docente di Letteratura inglese e Storia del teatro inglese presso il DILASS, sintetizza con efficacia il valore formativo della letteratura anglosassone, citando lo scrittore premio Nobel Mario Vargas Llosa secondo il quale “Un mondo senza la letteratura sarebbe più barbaro, più incivile, orfano di sensibilità”. La letteratura è un giacimento ricco di modelli infiniti di umanità e di storie di fioritura personale e collettiva. Ciascun individuo può decidere di fare la differenza, sfruttando ogni occasione per mettere in pratica i profondi insegnamenti offerti dalla letteratura e per forgiare una personalità forte e luminosa, capace di ispirare gli altri e di creare valore, ovunque si trovi.
Arcangela Palombaro Tirocinante CdLM Filologia e Tradizioni Letterarie – Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali
Il primo anno comico viene inaugurato nel 1545 quando, a Padova, un atto notarile ratifica l’accordo di otto uomini disposti ad abbandonare i loro mestieri per abbracciare la professione di attori: il documento è il certificato di nascita dell’attore moderno, che vive del proprio mestiere.
«Venga un malanno a questa professione e a chi ne fu l’inventore! Quando mi unii a costoro pensavo che avrei avuto una vita felice e invece è un continuo peregrinare per terra e per mare, e alloggiamo nelle osterie dove si sta male,a prezzi alti! Ho ereditato il mestiere da mio padre: forse avrei tratto maggior profitto da altri mestieri…ma la verità è che basta provare il mio lavoro anche una, due volte, per non abbandonarlo mai più»
Domenico Bruni (XVI sec.) è l’artigiano di uno spettacolo di fattura squisitamente italiana, la Commedia dell’Arte: una professione che, stando alla testimonianza del comico, val la pena di vivere fino in fondo.
La Commedia dell’Arte è il fenomeno del professionismo attorico organizzato in compagnie “di giro”: questa è una definizione più o meno scientifica di una tradizione ricchissima di arte e di cultura che, probabilmente, è l’epos nazionale mai emerso, il racconto condiviso alla base di una cultura delle consuetudini, dello spirito tipicamente “italiano”, delle dinamiche che intrecciano arte e potere.
Le maschere di Arlecchino, Pantalone, Brighella, ecc, sono simboli di un fenomeno artistico, è vero, ma anche reali tracce di una stratificata e complessa storia individuale di chi, a partire dalla metà del Cinquecento, le ha portate in giro nelle piazze italiane e nelle corti rinascimentali.
Secondo alcuni storici, le maschere provengono dalla tradizione teatrale delle Atellane, ed anche del carnevale ma sicuramente molte di esse sono frutto della creazione dei Comici dell’Arte per evocare il ricordo dei rituali pagani e, nell’immaginario dell’uomo rinascimentale, la maschera di cuoio, esibita in scena, ricorda sia il lato oscuro dell’individuo, sia la natura dell’attore come essere dimidiato, capace di vivere anche in una dimensione “altra”, un “al di là”. Il comico dell’Arte conduce realmente un’esistenza “al confine”: per l’attore moderno, la lotta per la sopravvivenza è inseparabile dalla ricerca della libertà, una libertà sempre a portata di mano ma mai concretamente conquistata o, se afferrata, goduta entro i limiti concessi dal potere politico.
La storia del teatro è anche il territorio del sapere che agisce da cerniera tra la Storia e la Letteratura, offrendo completezza allo sguardo sulla società e sulle dinamiche che, nella fitta relazione di causa-effetto, nel tempo hanno dato forma e sostanza alla fenomenologia del consumo dello spettacolo dal vivo: molte delle tecniche alla base della performatività attoriale sono eredità dello studio, della pratica assidua e della passione di individui che, senza risparmiarsi, affidavano il successo dello spettacolo «a gli atti, a’ modi, a’ gesti ed alla voce».
Arcangela Palombaro Tirocinante CdLM Filologia e Tradizioni Letterarie – Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali
«La distribuzione digitale è semplice, arriva ovunque e costa poco, o ci adattiamo o diventeremo dei dinosauri»: Barry Mayer, amministratore delegato della Warner Bros Entertainment, ravvisa l’urgenza di affiancare, ai tradizionali canali di distribuzione dei contenuti per l’intrattenimento, la distribuzione digitale, per non retrocedere sul mercato. In un ambiente mediatico in continua evoluzione, il web è l’universo che scambia e diffonde anche contenuti di interesse culturale. Ma siamo sicuri che la logica della transmedialità sia una prerogativa delle nuove generazioni? Nell’epoca dell’interconnettività, il know how è la conoscenza non più che in passato, e la transmedialità è un’attitudine propria dell’essere umano: tra il XV e il XVI secolo, Leonardo da Vinci è stato uno dei più grandi narratori e innovatori transmediali di tutti i tempi. Il genio toscano, interpretando pienamente il ruolo dell’uomo rinascimentale, sollecitato dalle istanze di una società sempre più orientata al consumo di massa, ha comunicato attraverso qualsiasi piattaforma disponibile nel suo tempo.
Ma in epoca più recente, anche l’Abruzzo ha dato i natali ad un campione di transmedialità: Luigi Antonelli (Castilenti, 1877 – Pescara, 1942), drammaturgo, poeta, narratore, saggista e critico teatrale, ha ben presente il concetto di glocal nella misura in cui, in qualità di giornalista, all’alba del nuovo secolo, contribuisce alla fama della stampa periodica abruzzese. Come ha evidenziato in un suo studio la professoressa Antonella Di Nallo, docente del DILASS, Antonelli appone la sua firma alle più autorevoli riviste dell’epoca e intesse legami con personalità di statura internazionale, le più rappresentative della cultura italiana, come Luigi Pirandello e Gabriele d’Annunzio.
L’Italia postunitaria affiora nei contorni culturali di un mosaico di regioni desiderose di decorticarsi della crosta provinciale, tese al futuro con l’energia di una “community” di narratori e giornalisti pronti a lucidare l’identità nazionale valorizzando le tradizioni locali: Luigi Antonelli è attivo in questo scambio interregionale volto a intrecciare la letteratura nel tessuto sociale e politico, e nel suo percorso professionale, che valicherà i confini continentali, porterà sempre il valore della sua terra d’origine. Il letterato del nuovo secolo produce e diffonde contenuti per il mercato culturale: nel secondo Ottocento si impone il romanzo, molto consumato nella diffusione d’appendice, e la novella, solidale, per brevità e per impronta veristica, con le tendenze fruitive dell’epoca, intrattiene i lettori su riviste e quotidiani. L’editoria prospera sostenendo un mercato culturale di dimensioni nazionali: gli imprenditori della stampa come Treves a Milano – che nel 1918 rinforzerà la popolarità di Antonelli pubblicando Avventura fantastica in tre atti – e Sommaruga a Roma, sfruttano la leva della pubblicità per vendere il prodotto-libro. «Cronaca bizantina», «Il Corriere di Milano», «L’Illustrazione Italiana», «Fanfulla della domenica», «Nuova antologia»: sono i vettori editoriali che distribuiscono non solo letteratura, pubblicando i lavori degli autori più significativi del momento come Verga, Pirandello, D’annunzio, Carducci, De Santis ecc., ma anche contenuti di economia, politica e scienze.
«Illustrazione Abruzzese» (1899), accoglie il battesimo letterario di Antonelli che esordisce sulla disinvolta rivista di Basilio Cascella: Il latte de le femine, La maga sono componimenti in versi, impreziositi dalle illustrazioni di Cascella e Primavera il primo, e di I. De Sanctis il secondo. Il periodico proporrà anche il dramma L’altro, rivelatore del cristallino talento drammaturgico che l’autore rifletterà con nitore nei generi grottesco e fantastico.
Mentre D’annunzio sta per infiammare le sale italiane con il lancio di Kabiria, nel 1914 «La Grande Illustrazione» promuove una raccolta di tre pièces di Antonelli: La casa dei fanciulli, Il Convegno e Chiaro di luna.
L’uomo che incontrò sé stesso raccoglie il grande successo a piene mani, al teatro Olimpia di Milano nel 1918, e per la critica è la pièce che segna lo stacco dal teatro fiacco del primo Novecento.
All’uscita dal Primo conflitto mondiale, il pubblico italiano è interessato al cinema americano, portatore di una narrazione realistica, e al teatro di varietà. La stampa specializzata, informata dalle riviste «Dramma» e «Comoedia», testimonia il successo che Antonelli raccoglie tra gli anni Venti e gli anni Trenta, sia con la drammaturgia di evasione (Il dramma, la commedia, la farsa,) sia con i prodotti più impegnati (La donna in vetrina): i grandi interpreti del teatro italiano, da Emma Gramatica a Marta Abba, da Virgilio Talli a Sergio Tofano, portano in scena le opere di Antonelli seguendo un calendario di ferro anche all’estero. Quando il cinema statunitense ha già un impianto market oriented, il ministro Giuseppe Bottai, nel 1931, dichiara l’industria cinematografica italiana pronta a competere con un cinema straniero estremamente attraente e divertente, affidando formalmente al proiettore dell’Istituto Luce la responsabilità di educare il Paese: in questo frangente, Antonelli si esprime al massimo della sua transmedialità. Con il riserbo che i letterati nutrono ancora per la tecnica, effetto manifesto dell’imperativo economico, il drammaturgo abbraccia anche il cinema e, nel 1939, imprime sulla pellicola Il Barone Corbò, una commedia composta dieci anni prima.
Nella veste di drammaturgo, come di narratore, o di critico teatrale tra il 1939 e il 1940 per “Il Giornale d’Italia”, Antonelli ha informato tutte le piattaforme mediatiche del suo tempo, partecipando, senza lesinare sforzi, alla vitalità di quello che attualmente viene definito un circuito di consumo culturale: lo spettatore raccoglie informazioni attraverso i media e valuta il grado di aderenza dell’offerta ai propri bisogni d’intrattenimento. Il consumo culturale, in definitiva, coerentemente con il rinnovato ambiente mediatico, si esprime in un’esperienza ciclica e ramificata nell’esplorazione di tutti i prodotti culturali come libri, musica, radio, televisione, articoli di giornale e così via. Luigi Antonelli ha dimostrato di saper dialogare con le tendenze del suo tempo, le ha intercettate, elaborate e cavalcate, alimentando la generazione di una società massmediatica che scambia il benessere con l’informazione, con la conoscenza. Il DILASS rende omaggio alla figura di Luigi Antonelli e rinnova il suo impegno nel sostenere la formazione dei giovani, chiamatiad interpretare, nell’attuale variabilità ambientale, i codici culturali di una società che muta rapidamente: è una sfida che mette in gioco un forte senso di responsabilità e di creatività. Il ruolo professionale e sociale di chi si assume la responsabilità di elaborare e diffondere o tramettere conoscenza, è prezioso e insostituibile, oggi come allora perché “fatta l’Italia, possiamo informare ancora tante generazioni di italiani!”
Arcangela Palombaro Tirocinante CdLM Filologia e Tradizioni Letterarie – Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali
Aulo Gellio, erudito romano del II secolo, usa per primo l’espressione «Classicus auctor» in riferimento ad un modello linguistico e letterario eccellente. Classicus viene da Classis, ceto: la metafora nasce dal diritto di voto riservato ai diversi ceti sociali all’interno dell’assemblea. Così come un cittadino ha bisogno dell’autorevolezza del censo per entrare nella classe elettorale, allo stesso modo, nella dimensione letteraria, alcuni autori fungono da modello per ispirare gli altri.
Come si spiega la ripresa del classico nella storia della letteratura ?
La letteratura è specchio e al contempo proiettore della complessità della vita e dei valori umani: il potere delle parole, attraversando il tempo e lo spazio, è capace di suscitare riflessioni ed emozioni in ogni stagione della vita, con un’ energia sempre nuova e con un messaggio sempre pertinente.
La letteratura latina è un ricco giacimento di spunti e di incoraggiamenti che i giovani possono cogliere per coltivare sé stessi. Seneca (4 a.C.- 65 d.C.), ad esempio, ne L’arte di vivere, incoraggia l’amico Lucilio sul valore del tempo: «Sarai meno schiavo del domani, se ti sarai reso padrone dell’oggi». È interessante ritrovare il pensiero di Seneca nelle parole del Mahatma Gandhi (1869-1948), grande costruttore di pace, che disse «Il futuro dipende da ciò che facciamo nel presente».
Ancora Seneca, nelle lettere a Lucilio, offre uno spunto per misurarsi con i propri limiti: «vivere significa essere di giovamento agli altri traendo profitto da sé stessi».
Lo stesso Dante Alighieri scelse la guida di Virgilio (70 a.C.-19 a.C), esempio di pietas e iustitia, per affrontare il suo viaggio attraverso i tre regni ultraterreni e, nelle parole di incoraggiamento che gli attribuisce nella Divina commedia, risuona il monito che il poeta romano incise nell’Eneide: «Ora hai bisogno del tuo coraggio. Ora fa’ che il tuo cuore sia forte».
La letteratura latina offre anche prodotti di evasione come gli Amores di Ovidio (43 a.C.-18 d.C.), il quale, insieme agli altri poeti augustei, realmente crea, lavorando la fine grana del verso, la nuova consistenza della realtà, come un vero e proprio influencer, modellando la forza di un patrimonio letterario stratificato e complesso in nuove forme di espressività stilistica, al punto che, nelle epoche successive, verrà considerato garante dell’uso linguistico e letterario. Con le Metamorfosi, Ovidioha anche offerto ispirazione all’arte di Raffaello, Tiziano, Correggio, Rubens e, soprattutto, Bernini che, nel gruppo scultoreo Apollo e Dafne, ha dato consistenza materica al processo di trasformazione.
Con la composizione degli Amores, Ovidio propone l’aspetto giocoso dell’amore, ma il regista teatrale abruzzese Claudio Di Scanno, prendendo ispirazione dall’opera del poeta romano, propone un testo teatrale profondo e tridimensionale: Amor-es. Claudio Di Scanno contribuisce, con la sua ricca esperienza professionale, ad arricchire l’offerta formativa del DILASS con un progetto di formazione teatrale che coinvolge gli studenti secondo le inclinazioni e il talento che esprimono nella scrittura teatrale, come nella performatività attoriale. Di Scanno racconta il processo creativo che gli ha permesso di trasporre l’opera ovidiana in un testo teatrale:
«L’autore che scrive un testo, scrive per esprimersi: a me interessa intrecciare nel testo teatrale i motivi che hanno spinto un autore a comporre quel testo, che rivela sempre l’atteggiamento dell’autore verso lo spirito del suo tempo, una reazione al suo tempo. Per sviluppare lo spettacolo ho intrapreso un intimo dialogo con l’autore e ho interpretato il concetto di seduzione amorosa come desiderio di bellezza, laddove la bellezza è la giustizia, per esempio. In questo senso, lo spettacolo ha dato spazio ad un monologo femminile, elaborato su un’intervista rilasciata dalla madre di Peppino Impastato. Il teatro non deve dare delle risposte ma deve offrire al pubblico l’occasione per riflettere sulle questioni attuali: il teatro è il luogo in cui si sprigiona la chimica delle relazioni, tra attori e pubblico». La proposta teatrale del regista abruzzese dimostra come la forza comunicativa dei Classici acquisti sempre nuova forma e nuovi obiettivi, adattandosi anche ai problemi e alle domande del nostro tempo.
Arcangela Palombaro Tirocinante CdLM Filologia e Tradizioni Letterarie – Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali
La ricca campagna digitale #aida150 è stata realizzata dal Ministero della Cultura per celebrare il 150° anniversario della première europea dell’Aidaalla Scala di Milano, allestita l’8 febbraio del 1872. Il valore di questa celebrazione è tanto più prezioso, quanto più significativo fu l’evento meneghino per Giuseppe Verdi (1813 –1901) che compose l’opera, in quattro atti, con libretto di Antonio Ghislanzoni (1824-1893), su commissione di Ismail Pascià, Khedivè d’Egitto, per celebrare l’apertura del Canale di Suez (1869)[1]. La produzione di Verdi dal carattere più strettamente risorgimentale è quella compresa tra il 1842 e il 1849 e l’opera più significativa, in tal senso, è il Nabucodonosor. Tuttavia, il compositore diede vita al suggestivo coro del “Nabucco” per ottenere popolarità e successo, non per sincero spirito di adesione al diffuso sentimento patriottico e, anche successivamente, scelse di liberare dalle proprie partiture l’impeto di un popolo animato dal desiderio di libertà, per rinsaldare la visibilità conquistata dopo anni di duro lavoro e di difficoltà economiche e familiari. Giuseppe Verdi affermava che in alcuni momenti si compiono passi falsi o si cade ma, senza preoccuparsi, bisogna rialzarsi e andare avanti, e riportò brillanti vittorie mettendo pienamente a frutto il proprio talento, facendo delle difficoltà lo strumento per comporre la sinfonia del suo successo. All’apertura del cantiere di lavoro dell’Aida, Verdi godeva ormai dell’autorità artistica che permetteva libertà di scelta nei temi e nei contenuti: in tutta la produzione seppe prestare la sua creatività alla generazione di valore. Quelli che il compositore definì “anni di galera”[2], nel ritmo serrato di un lavoro febbrile e indefesso, accolsero l’allestimento di opere in grado di accendere la platea con un energico ottimismo politico e sociale. La drammaturgia di Verdi esalta l’umanità di individui animati da nobili valori e pronti ad affrontare le difficoltà sullo slancio esplosivo di una tradizione musicale tutta italiana. Il 150° anniversario della première europea dell’Aida diventa l’occasione, per gli studenti, di rinnovare lo spirito di missione legato allo studio come strumento per affinare il talento e le capacità necessari a costruire valore con un ruolo attivo nella società, fiorendo ciascuno nel proprio ambito professionale, sull’esempio di Giuseppe Verdi. Il dipartimento del DILASS si unisce ai festeggiamenti in corso, augurando a tutti i giovani e gli studenti di esprimere il massimo potenziale che possiedono anche lasciandosi ispirare dalla storia della grande musica italiana.
«L’Italia è un faro: i musicisti vengono da tutto il mondo per studiare musica nel nostro Paese»: così Isabella Crisante, musicista abruzzese, evidenzia l’importanza della tradizione musicale italiana nel mondo. L’artista ha contribuito, nel 2014, all’allestimento dell’Aida di Franco Zeffirelli, in qualità di assistente di regia. «È importante celebrare il centocinquantesimo della prima dell’Aida perché è un dato storico rilevante il fatto che l’opera fu commissionata a Giuseppe Verdi per l’inaugurazione del Canale di Suez: questo testimonia la statura internazionale del compositore; e la committenza in sé ha dato lustro e prestigio ad un evento cruciale dal punto di vista geopolitico ed economico. Verdi impiega armonie e intervalli orientaleggianti per dare esotismo ai personaggi di una storia evergreen, una storia di amore e potere, che funziona oggi come allora, affrontando temi attuali come l’amore contrastato, la guerra, la diversità. Nel 1872 è difficile portare in scena tutto ciò e, all’indomani dell’Unità d’Italia, Verdi affronta un tema che fa risuonare una corda ancora molto delicata per il popolo italiano, portando in scena il tema del popolo etiope che chiede pietà. Ormai, si assiste all’opera per puro intrattenimento, per la spettacolarità ma, benché l’Aida sia definita “l’opera degli elefanti” per l’imponenza dell’allestimento, i momenti più intensi, più intimi, sono quelli in cui emergono i sentimenti.
Essere parte dell’allestimento, da musicista, significa ricostruire una realtà attraverso il recupero di tracce di situazioni scomparse o semi-scomparse; per me ha avuto significato nella misura in cui mi sono resa tramite, strumento per restituire la profondità di emozioni e sentimenti che emergono su un palcoscenico che ospita un cast numerosissimo, che io ho sostenuto nel percorso di preparazione dell’allestimento, prima studiando insieme l’opera e poi cercando la magia, quelle connessioni profonde con il cast e con l’orchestra. Ti senti forte, parte di un organismo vivente: fai in modo che tutti, ma proprio tutti si sentano indispensabili, perché è questo che fa funzionare lo spettacolo. L’amore è una forza. È come creare un arazzo con mille fili colorati. E questa forza permette di affrontare e superare le mille difficoltà che emergono: in un cast di ottanta, novanta persone i problemi si moltiplicano in maniera esponenziale. Uno spettacolo così immenso non riesce se non è sostenuto dall’amore, che significa anche valorizzare al massimo ogni singolo contributo».
Arcangela Palombaro Tirocinante CdLM Filologia e Tradizioni Letterarie – Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali
[1] C. Sorba, Il Melodramma della Nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento. La Terza, Roma, 2015
[2] M. Carrozzo, C. Cimagalli, Storia della musica occidentale, Roma, Armando, 1997, p. 181